Immagine divisa in due il cui messaggio centrale è che trattare tutti allo stesso modo non significa necessariamente offrire le stesse opportunità, mentre l’equità riconosce e risponde alle differenze individuali

Bocciare un ragazzo con diagnosi di disturbo dello spettro autistico: giusto o sbagliato?

A cura della Dott.ssa Giuseppina Murciano   
Psicologa e vice-presidente di Angsa Lecce (Associazione Nazionale Genitori PerSone con Autismo)

La questione è complessa e meriterebbe una riflessione più ampia.

Federico De Rosa (persona autistica, giornalista, divulgatore e scrittore)
…Non siete soli nell’universo e non dovete neanche cercare altre vite intelligenti ad anni luce di distanza. Molto più vicini, ci siamo noi autistici. C’è vita autistica sul pianeta terra e non sembreremmo persone rotte se non ci fosse tutta questa gazzarra neurotipica…”


Giorni fa questa notizia è stata diffusa su varie testate giornalistiche e profili social che si occupano di autismi; come un colpo al cuore, quando arrivano notizie simili innescano sempre un groviglio di emozioni e riflessioni, soprattutto in tante famiglie con figli nella condizione autistica.

Il profilo social di Pizzaut, la pizzeria gestita da genitori e ragazzi nella condizione autistica, ha ripreso in un post le parole della madre del ragazzo con diagnosi, che è stato bocciato a scuola.
Parole forti, intrise di dolorosa consapevolezza, ma tanto dignitose e piene di fiducia umana nelle risorse del proprio figlio.
Ovviamente fa da trama una critica, se pure garbata, verso le istituzioni scolastiche, che hanno valutato lo studente, secondo criteri molto discutibili.

Abbiamo condiviso anche noi un’esperienza molto simile, se pure non c'è stata una bocciatura; abbiamo sperimentato un freno, una battuta d'arresto, un conflitto tra posizioni contrapposte.
Abbiamo affannosamente ricercato, per mesi molto pesanti, uno spazio di confronto con la classe docente, fino alla sospensione finale, decisa più dagli eventi emergenti e incontrollabili, piuttosto che da una scelta ragionata e calma.

Ritornando al post, mi ha molto colpito leggere i commenti, che a mio parere, rivelano molto la questione, come è ben caratterizzata: da una parte i ragazzi con "diagnosi", le loro famiglie e spesso anche operatori sanitari e terapisti; mentre al polo opposto la scuola, il sistema scolastico e il suo "funzionamento" su una base teorica abbastanza inclusiva e accogliente; poi, in mezzo si allarga la crepa, o la "fenditura invisibile" in cui si incagliano le convinzioni e le credenze.
E qui, in questa " crepa mediana" c'è un mare infinito di contraddizioni e distorsioni.

Esistono appunto i fautori dell'inclusione, che però diffondono un principio di uguaglianza, valido per tutti.
In parole più semplici: se tutti sono uguali, nessuno escluso, allora anche i ragazzi con diagnosi devono essere valutati con equità, raggiungendo almeno gli obiettivi "minimi" decisi dal Ministero, altrimenti rischiano la bocciatura.

Per "minimi" si intende, nella stragrande maggioranza dei casi, una riduzione dei programmi, come se una mente autistica avesse bisogno di imparare di "meno", piuttosto che in modo diverso, con strategie metodologiche adatte ad una mente neurodivergente, appunto, che ragiona semplicemente in un altro modo.

E, mentre apprende, deve anche imparare a gestire le proprie difficoltà iper o iposensoriali; e se va tutto bene, prova a modulare anche i suoi interessi molto specifici, che potrebbero deviare la concentrazione altrove.

Per non parlare delle particolari difficoltà a socializzare, "generalizzando" ogni santo giorno le regole sociali, imparando ossia come attivare lo scambio reciproco e l'empatia, che per attivarsi avrebbero necessità di una "teoria della mente", negli autismi geneticamente carente.

E va bene, non ci pensiamo alle difficoltà sociali e comportamentali, se pure già questo limite presupporrebbe un adeguato impegno nel costruire riferimenti stabili, strategie di coping adatte e social skills, con attività personalizzate e organizzate in ampio anticipo.

Il tutto servirebbe per realizzare un'inclusione vera, basata sull'accettazione delle diversità di ognuno.

Ma, ritornando a questi benedetti obiettivi scolastici "minimi" che quando non sono raggiunti, secondo i criteri ministeriali...quali conseguenze producono?

Succede che inevitabilmente la crepa si allarga e crea un divario insormontabile, dove i tentativi di comunicazione tra le parti si baserà su questi livelli: eh no, non potete pretendere la promozione se volete l'uguaglianza...non sarebbe giusto nei confronti degli altri compagni... eh...però voi genitori avete aspettative troppo alte e non vi accorgete delle lacune dei vostri figli...suo figlio avrebbe bisogno di essere educato e di saper stare in classe, altrimenti è una mina vagante, ci sarebbe bisogno di una programmazione differenziata, che non gli darà un diploma finale, ma almeno non si stresserà troppo, poverino ecc..ecc.. più o meno su questa tonalità comunicativa o giù di lì.

Da una tale conflittualità di posizioni contrastanti si dipana una interminabile narrazione fatta di logoranti discussioni e precisazioni spesso inascoltate del tipo: sì, è vero, può essere che i genitori abbiano forti vissuti emotivi e illusioni ottimistiche sul futuro dei propri figli, ma non le nascondono, le esprimono in spazi adatti di parent training, per lavorarle e trasformarle.
Quindi, per favore no, non ci rimandate ogni volta nello spazio invisibile del personale, lo conosciamo con consapevolezza emotiva, fin negli angoli più nascosti.

Proviamo ad argomentare, basandoci su conoscenze scientifiche, quindi verificate e validate da studi sperimentali; continuiamo a formarci sulle ultime ricerche e protocolli che poi andranno personalizzati, in base alle osservazioni oggettive e valutazioni dei ragazzi, e lì, proprio lì, in quel varco al confine, confrontiamoci e collaboriamo per costruire un mondo più ampio, complesso, variegato e diverso.

Le premesse teoriche, come abbiamo accennato, ci sono tutte, poiché il sistema scolastico italiano fa riferimento ad un approccio inclusivo, basato su linee guida internazionali, che pone innanzitutto il concetto di rete come fondamento essenziale, per la crescita evolutiva di ogni suo componente.

Ormai è pienamente consolidato da decenni che uno sguardo univoco non basta più per comprendere l’autismo; è necessaria una conoscenza approfondita e integrata dei vari ambiti scientifici (medico, psicologico, educativo) con le metodologie di intervento applicate in modo specifico.

In ambito scolastico, quindi, la didattica personalizzata dovrebbe essere sempre alla base di un percorso formativo. Non differenziata, ma personalizzata, in base alle specificità e risorse di ognuno.

La prospettiva degli approcci evolutivi ed interattivi è diversa, in quanto mettono l’accento sull’importanza della dimensione emozionale e relazionale in cui si concretizza l’agire dell’alunno. (SINPSIA, Società Italiana di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza. 2005).

Eccolo qui il valore aggiunto, ovvero la dimensione umana ed empatica, su cui si dovrebbe fondare l’apprendimento e non viceversa.

Quindi, l’integrazione scolastica dovrebbe sviluppare le potenzialità della persona diversamente abile e il diritto all’istruzione e all’educazione non potrà essere impedito dalle difficoltà di apprendimento, né tantomeno da altre difficoltà connesse alla disabilità.

Il modello medico ha prevalso per decenni, per cui la persona con disabilità aveva le sue limitazioni funzionali, viste e inquadrate nella sua individualità; solo in seguito la disabilità si riferirà alle barriere ambientali e agli schemi mentali, che procurano forme disabilitanti e non più alla Persona.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto nel 2001 il modello bio-psicosociale, che introduce la Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute (ICF 2001).

Il cambiamento di prospettiva nella disabilità con l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) è fondamentale grazie ai suoi principi base: l’universalismo, l’approccio integrato e il modello interattivo e multidimensionale del funzionamento e della disabilità.

Sostanzialmente questo nuovo modello sociale coglie in modo olistico tutte le interazioni dinamiche e reciproche tra l’individuo e l’ambiente, nei suoi aspetti medico-biologico, psicologico e socio-ambientale.
Notiamo la differenza?
L’intervento non è più concentrato soltanto sulla persona, ma sul contesto ambientale e sociale.

È il contesto che può cambiare, attraverso azioni sociali, dove la responsabilità di pensare e agire in modo inclusivo appartiene a tutti, non solo alle famiglie e ai servizi rivolti alla disabilità.
È dal modello bio-psico-sociale che nasce l’inclusione vera.

Quindi, ripetiamo: possiamo parlare di inclusione quando consideriamo la persona con difficoltà inserita in un contesto sociale, in grado di potersi “muovere”, vivere con dignità e più serenamente possibile, all’interno di servizi accessibili e facilitati, che consentano un pieno scambio di tutti, non solo della persona in questione.

Quindi, ripetiamo: includere significa intervenire su un contesto e non sulla persona singola con difficoltà.
Nell’inclusione non ci sono spazi che dividono e separano il “normodotato” da chi ha “più difficoltà”: la condivisione è reciproca.

Ora riportiamo il modello sociale all’episodio della bocciatura: per far sentire incluso il ragazzo si è deciso di bocciarlo, visto il non raggiungimento degli obiettivi minimi, ma questo esito riguarda solo il ragazzo e la famiglia, oppure ha a che fare anche con gli altri componenti della rete sociale inclusiva?

Se intendiamo per inclusione concreta, lo stare in mezzo agli altri, come parti preziose di un contesto sociale, con le proprie diversità intese come risorse, allora ci dobbiamo fare qualche domanda.

Ovviamente siamo ben consapevoli che non sia facile; ci possono essere tappe, dove chi in difficoltà avrà bisogno di un approccio più personalizzato, per costruire una relazione innanzitutto empatica (apprendimento didattico); nell’inclusione si lavora sempre per arrivare a includere nel tutto e il tutto è attivo, non delega ma sceglie in prima persona di esserci.

Ognuno di noi può fare qualcosa, perché prima di una diagnosi c'è innanzitutto una persona, che funziona a modo suo, ossia agisce, sente, pensa in modo diverso.

Si sta lavorando tanto sulle barriere mentali, meno evidenti delle barriere fisiche, ma purtroppo più radicate e dannose: anche questi eventi, se pure dolorosi, vanno nella direzione di costruire sempre di più una cultura inclusiva e reciproca, sensibilizzando chi in apparenza ha più risorse visibili nel comprendere e sostenere chi ha bisogno, assumendosi la responsabilità anche di farsi aiutare e arricchire.

La realtà, lo sappiamo bene, è molto più complessa e varia. E più è complessa, e più costa fatica, lo so.
In termini di impegno e grande capacità di messa in discussione.
Costa soprattutto coltivare il dubbio e lasciare che germogli nella continua verifica. Da parte di tutti i componenti della rete sociale.
Nessuno escluso.
Il mondo diverso e inclusivo si può costruire solo così, a mio avviso, dove non solo le famiglie sono disposte a crescere e cambiare, ma anche il contesto sociale, gli altri, la realtà intera.

Post Scriptum
Ovviamente questa mia personale analisi non è generalizzata a tutte le istituzioni scolastiche, devo specificarlo.
Esistono docenti davvero incredibili, professionali ed empatici, che sperimentano ogni giorno strategie nuove, per includere e rendere il proprio lavoro degno della preziosa missione che portano avanti. Persone, innanzitutto, con cui fare rete è possibile. Grazie a tutte le Persone uniche che si incontrano in questo percorso che è la Vita, che supportano, ascoltano e non si allontanano, soprattutto nei momenti più difficili. A loro, ogni attimo, va un pensiero grato, emotivo ed autentico.

 

L’autismo è facile da capire. Basta che smettiate di sentirvi giusti e di pensarci sbagliati. Poi, è tutta in discesa." (Federico De Rosa)

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