Una mano su un lettino stringe forte una linea di elettrocardiogramma tanto da farla diventare piatta

Essere o non essere. Morire, dormire… nient’altro

LETTERA APERTA DEL DOTT. SALVATORE SISINNI
Specialista in Malattie Nervose e Mentali
Primario ospedaliero di Psichiatria

Da qualche settimana è tornato prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica il problema dell’eutanasia, cioè su chi deve decidere le modalità del proprio fine-vita. È in atto, allo scopo, una campagna di raccolta di firme, promossa dall’Associazione “Luca Coscioni” per sollecitare il varo di una legge che legalizzi in Italia il suicidio assistito, al pari di quella vigente da tempo nella vicina Svizzera.

Suicidio assistito vuol dire che lo Stato autorizza un medico a “uccidere” una persona, stanca di vivere per una malattia inguaribile, a prognosi infausta a breve termine oppure un soggetto in uno stato vegetativo permanente, cioè irreversibile a chiedere la stessa cosa. In questo caso, ovviamente, la richiesta dovrebbe farla un familiare (il marito per la moglie o viceversa, il padre o la madre per un figlio o viceversa).

Mi chiedo e chiedo: quel medico che si dichiarava disposto a praticare al paziente in gravi condizioni l’iniezione letale non commette un omicidio? Qui non si tratta di essere cattolici o meno e neppure che il nostro Stato sia laico. È il principio che conta! Almeno, secondo me. Non tutti – lo so bene – mi daranno ragione.

Morire dignitosamente vuol dire, sempre a mio modesto parere, essere assistito dai medici in modo tale da soffrire quanto meno possibile – esistono, codificate, in Medicina le cure palliative nonché gli specialisti della terapia del dolore, oltre che dai propri cari e, per chi crede, anche da un prete che recita una preghiera.

Allargando le considerazioni, pongo un’altra domanda: perché mai, quando arriva in un Pronto soccorso una persona che abbia tentato il suicidio e non ci sia riuscita il medico di turno si deve prodigare, con urgenza e in tutti i modi (cioè, coinvolgendo subito per competenza, il rianimatore) per strapparlo alla morte? Se non lo facesse, sarebbe processato per omissione di soccorso, configurandosi il reato di omicidio colposo.

Se un giorno (malauguratamente, secondo me) fosse varata la legge sull’eutanasia quel medico non sarebbe più perseguibile? E, ancora, se un soggetto, affetto da una forma cronica, gravissima di “depressione maggiore”, farmacoresistente tenta il suicidio e non gli riesce, una volta trasportato d’urgenza al più vicino ospedale, vigente, eventualmente, la legge sul suicidio assistito il medico di turno, favorevole a tale legge, non lo soccorre o, addirittura, gli inietta in vena una dose letale di un barbiturico per finirlo definitivamente? E il dolore del depresso, che non guarisce o non migliora, nonostante la somministrazione dei farmaci antidepressivi – ce ne sono a iosa – e delle più sofisticate psicoterapie, non è un dolore fisico ma psichico, dell’animo (nei trattati di Psichiatria viene denominato “morale”) non è meno grave del dolore che attanaglia un paziente oncologico in fase terminale.

Su “la Repubblica” del 4 settembre scorso il prof. Filippo M. Boscia, presidente nazionale dell’A.M.C.I. (Associazione Medici Cattolici Italiani), alla quale mi onoro di appartenere, in una lettera pubblicata sull’apposita rubrica, rispondendo al giornalista Francesco Merlo, curatore della rubrica, scriveva: “L’obiezione di coscienza non è una prerogativa dei soli cattolici e lo Stato, se è laico, deve tenere presente ogni obiezione senza discriminazione. Sostengo e pretendo che uno Stato laico sia rispettoso della vita in tutte le sue declinazioni. Purtroppo viviamo in una società che esclude chi è più fragile”.

Il dottor Merlo ha replicato, tirando in ballo il grande oncologo Umberto Veronesi, che, all’epoca, in un’intervista, si espresse a favore dell’eutanasia, forte della sua autorevolezza nel campo dell’oncologia. Da semplice medico, specialista in Neuropsichiatria, mille volte meno autorevole di Veronesi, mi permetto, sommessamente, di far notare che, da Ministro della Sanità, condannava, come si suol dire, senza “se” e senza “ma” l’uso del tabacco, perché, essendo altamente cancerogeno, nuoceva alla salute mentre si dichiarava favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere; che – come ormai è accertato – non sono innocue e sono la porta d’ingresso a quelle pesanti, vero e proprio veleno per il corpo e per la mente di chi le usi. Legalizzare la droga per rispettare la libertà della persona? La persona, quindi, dovrebbe essere libera di farsi male con le sue stesse mani? Non mi sembra un consiglio da seguire.

Concludendo, ci dovrebbe essere oltre la libertà di drogarsi, anche quella di porre fine alla propria vita, quando non si sopporta più la sofferenza e il dolore? Bisogna proibire drasticamente il tabacco perché può far morire, si può, invece, legalizzare l’uso della droga rischiando la morte per overdose. Francamente, non mi sembra che vi sia molta coerenza in questo ragionamento. Che cosa ne pensa il giornalista, dott. Francesco Merlo, dal momento che Veronesi non può più replicare? 

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