Covid, nemico pubblico n.1. Un'infermiera addormentata sulla tastiera del Pc con ancora addosso il camice e la mascherina

Covid nemico pubblico n. 1

Foto della Dottoressa Gilda De Giorgi

A cura della 
Dott.ssa Gilda De Giorgi 

Psicoterapeuta e psicologa clinica, specializzata in salute 
relazioni familiari e interventi di comunità 

Maglie  

 

L’attuale periodo storico ha sollevato il velo su molte criticità relative a strutture pubbliche e private, in particolare rispetto la loro organizzazione, cultura di base, burocrazia.

Nel mirino di opinione pubblica e politica le strutture ospedaliere, che “con le unghie e con i denti” hanno tenuto duro, brancolando nel buio nelle fasi iniziali della pandemia.

Piuttosto che una analisi di ciò che non ha funzionato, di ciò che è mancato, utile, ma abbastanza immediata col “senno del poi”, potrebbe essere altrettanto utile riflettere sulla tenuta, la resistenza, delle equipe e delle strutture, valorizzando e rielaborando le variabili che han funzionato.

Una siringa che vola tra le stelle come se fosse un razzo spazialeIl vissuto maggiormente condiviso durante le prime fasi della pandemia e non solo, è stato quello dell’impotenza, di non aver armi a disposizione, né risorse, data la natura sconosciuta del “nemico pubblico numero 1”. Nonostante la parola virus sia molto familiare per gli addetti ai lavori, e non, la variante SARS COVID 2 ha insinuato nell’imago familiare tratti perturbanti di un certo rilievo. Come in epoca gli elefanti di Pirro, tali tratti hanno depauperato strumenti di uso comune della loro efficacia, intaccando la fiducia degli operatori nelle loro risorse.

Il vissuto di impotenza non è nuovo alle equipe ospedaliere. Ogni perdita richiede un lavoro emotivo e cognitivo di “metabolizzazione” da un lato e di ristrutturazione cognitiva dall’altro. L’accettazione di non poter controllare tutto e il tentativo di ripercorrere i passaggi fatti alla ricerca della variabile incriminata, dondolano l’operatore tra limiti e potenzialità.

La tenuta a tale vissuto durante la pandemia, soprattutto per coloro i quali erano chiamati a curare, senza avere gli strumenti per farlo, è stato uno spostamento di fiducia da strumenti dati a strumenti nuovi, non ancora definiti. La speranza nella ricerca, quindi in un ignoto, ha forse salvato molti più operatori dal drop out, piuttosto che altro.

Il baluardo di una nuova cura in provetta, ha sostenuto gli operatori nel prosieguo della battaglia, coccolandoli con l’idea di avere di nuovo uno strumento tangibile di cura.

Una seconda riflessione può riguardare il legame tra dentro e fuori il contesto ospedaliero. Grazie al virtuale o presenza 2.0, lo scambio tra utenti e servizio è stato serrato. Da fuori tanta la curiosità di vedere cosa succede tra le pareti ospedaliere, dall’interno forse, il bisogno di condivisione dei vissuti, di riconoscimento dei propri sforzi e sacrifici. Il tentativo di creare un ponte comunicativo che rendesse i confini labili e annullasse le distanze tra chi si ammala e chi cura, ruoli in tal caso ancor più visibilmente interscambiabili che per altre malattie.

I social e tutti i mezzi di comunicazione di massa, hanno reso possibile una narrazione dei vissuti, attraverso immagini, foto, storie, post. Tale passaggio si è probabilmente rivelato utile affinché la sofferenza diventasse dolore, quindi emozione tangibile e più facilmente manipolabile al servizio di uno sfogo risolutivo.

Fede, appartenenza, condivisione, spinta al cambiamento, queste forse le caratteristiche al servizio del reparto e/o i servizi offerti dal reparto, oltre l’ossigeno, le analisi e tutte le azioni strettamente tecniche. Forte l’attenzione all’umano, che oggi ha portato gli ospedali ad attrezzarsi per far entrare i parenti nelle terapie intensive, che oggi ha portato a un vaccino e a gare di somministrazione in luoghi nuovi, prima contesti di tutt’altro uso.

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