04 Dicembre 2024
Una mamma con la valigia è in aeroporto con la sua bambina che indica qualcuno davanti a loro

Familiare che rientra dal nord in periodo di quarantena

Foto della Dottoressa Gilda De Giorgi

A cura della 
Dott.ssa Gilda De Giorgi 

Psicoterapeuta e psicologa clinica, specializzata in salute 
relazioni familiari e interventi di comunità 

Maglie  

 

ESTRANEO SOLO OLTRE IL VELO

C’è sempre un andare. C’è sempre un’andata. Partire fa vedere prima di tutto ciò che si lascia, prima ancora di ciò verso cui si tende. La prima certezza del partire è la terra sotto i piedi, ciò che si calpesta, che esiste e sta, sicura. Sicura certezza del viaggiatore, del migrante. Casa, luogo, appartenenza, origine. Ciò che si lascia è parte di noi, è noi. La nostra cultura, il nostro modo di pensare.

L’appartenenza e ciò che ci appartiene ci identificano e ci definiscono. Siamo la terra sotto i nostri piedi. Ma allora perché lasciarla? Sicuri forse di portarla con noi? Una foto, un amuleto, un portafortuna, un regalo, nella valigia, nelle tasche e la nostra terra viaggia con noi. Sicuri che quell’amuleto o quel sasso troveranno un posto nel luogo di arrivo. E se così non fosse?

Migrante con la valigia che vede un aereo in voloLa terra d’approdo solitamente è esperita solo in parte. In una piccola parte. Ciò che sappiamo di lei ci è stato raccontato, tramandato e visto in foto, in cartelli pubblicitari. Ogni elemento è mediato da un terzo, attraverso un qualunque canale di persona o meccanico.

Se prendessimo a prestito l’immagine di un puzzle, potremmo dire di avere a disposizione solo i pezzi della cornice. Nulla più. Il resto, i pezzi mancanti si trovano lì, all’approdo. Quello spazio vuoto viene riempito con il desiderio di quella meta, di quell’isola che non c’è, sconosciuta, ma senza dubbio un’isola felice rispetto la nostra. E tale aspettativa alimenta la nostra spinta a partire, riempiendo quello spazio vuoto con parti di noi, sapori, profumi esotici mai vissuti, ma fortemente agognati. E lì, nell’immagine di quel puzzle meticolosamente ricostruito prende posto il nostro amuleto, la nostra terra.

Nello sconosciuto collochiamo parti di noi, la nostra appartenenza, fino a creare un’immagine nuova, un ibrido tra ciò che desideriamo e ciò di cui non possiamo fare a meno. Sicuri che quell’immagine, come la nostra persona, saranno accolti a braccia aperte. Sicuri che anche in quell’isola felice troveremo un nostro posto, una nuova terra da calpestare. Ma l’approdo e l’approdare non sono solitari. Da lontano scorgiamo qualcuno, qualcuno che conosce bene quella terra, che vi appartiene e che forse nel nostro puzzle non c’era o era diverso, più familiare.

Il volto che vediamo è umano, ma è estraneo. La sua estraneità è segnata dall’impronta che lascia sulla sua terra e la possiamo vedere sul suo viso, connotato da un colore diverso, e lo possiamo ascoltare dalla sua bocca. Esistono suoni che non riusciamo a comprendere, sono parole che non comunicano. Come capire allora le intenzioni del nostro interlocutore? Forse dal linguaggio del corpo. I suoi segni somigliano ai nostri ma non sono uguali.

L’approdo del migrante è l’estraneo che rompe il puzzle! È la rottura di un’immagine meticolosamente costruita, la frattura del suo desiderio, reinventato e riadattato dall’estraneo. Oggi, dopo la messa in opera di diverse politiche sull’immigrazione, il migrante conosce qualcosa in più del suo approdo, eppure al suo arrivo, ciò che vede conserva il sapore di un’amara scoperta. Oggi si sente parlare di trauma del migrante. Ferita derivante dal fallimento del suo progetto, che porta con sé valige transgenerazionali, all’approdo sottoposte a severo controllo e discernimento. Paradossalmente è l’estraneo a trovare un posto a quell’amuleto, a quel sasso, non il migrante.

La terra che accoglie è un nuovo puzzle dove solo pochi pezzi si incastrano. La frattura del migrante non è solo il risveglio da un sogno, ma è anche prendere coscienza che qualcun altro ha selezionato per lui ciò che può tenere con sé e ciò che deve lasciare. Parti della sua terra, della sua appartenenza, non trovano posto nella nuova isola. Questa è oggi l’inclusione. Un atto estremamente violento, come le prove di selezione ad un qualunque concorso. Altri creano un contenitore solo dove una specifica forma di noi trova collocazione. Perché adesso è lui l’estraneo, il migrante è portatore di estraneità, poiché denotato da parti di sé percepite come perturbanti. Perturbante, come qualcosa che doveva rimanere nascosto e invece è riaffiorato.

ConInfermiera della Croce Rossa Italiana che controlla la presenza di covid nei passeggeri un meccanismo forse più superficiale rispetto a quello inteso da Freud, ciò che noi pensavamo di sapere e sentire verso l’estraneità, nell’incontro prende forma, a tal punto che ciò che era familiare, come il rapporto con l’altro estraneo da sé, diventa in-solito, in-aspettato, perturbante. Questa semplice ipotesi potrebbe in qualche misura inquadrare l’angoscia vissuta verso un familiare che rientra dal Nord in periodo di quarantena e che pur essendo concittadino, conoscente, vicino di casa, è portatore ora di un nuovo elemento, una nuova variabile, che assume una tonalità affettiva perturbante. Non è il suo volto, non è la sua lingua, ma la sua provenienza, da una terra malata, contaminata da un “raffreddore sconosciuto”, verso il quale non vi siano armi che tengano. E come il migrante viene sottoposto a tanti e premurosi e scrupolosi accertamenti, così l’italiano sceso dal Nord viene scandagliato attentamente perché quello che ha portato resti con lui e solo con lui e non trovi posto nel familiare. Anche lui costretto ad assumere una forma di adattamento ad un contesto che si impone come unica possibilità di spazio forma.

Una semplice riflessione, non un attacco alle politiche migratorie piuttosto che ai protocolli Covid-19, risolvibile con una citazione del tipo “tutto il mondo è paese” o “siamo tutti figli di un unico Dio”, per chi fosse un religioso monoteista. Riflessione che lascia intravedere come azioni e protocolli coordinati, seppur diversi o solo simili all’apparenza, siano la messa in scena di meccanismi ricorsivi comuni all’uomo, estraneo o familiare che sia, ove le variabili perturbanti o suscettibili di sovrastrutturazione sociale, rappresentano un “velo dipinto”, sopra qualcos’altro, tutt’altro che estraneo. 

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