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BAMBINI DISATTENTI E IPERATTIVI? L’INTERVENTO PASSA DAI GENITORI

Foto della Dott.ssa Giulia Miglietta

A cura della 
Dott.ssa Giulia Miglietta 

Psicologa - Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico socio-costruttivista 

Taviano (Lecce) 

 

“Bambino con ADHD”: un disturbo molto, troppo, comune tra le nuove generazioni. Ma di cosa si tratta? L’acronimo inglese sta per “Attention Deficit and Hyperactivity Disorders”, ossia Disturbo di Disattenzione e Iperattività. Si tratta di una sindrome, più che di un disturbo circoscritto, i cui sintomi si manifestano nel bambino nella cosiddetta “triade” dell’iperattività - disattenzione - impulsività. Tale problematica insorge nell’infanzia e nel tempo interferisce con il funzionamento sociale, scolastico e, in età più adulta, con il funzionamento lavorativo del soggetto.

Va precisato che la diagnosi spesso si associa con un altri disturbi tipici dell’età evolutiva, tra cui i più frequenti sono il Disturbo della Condotta, il Disturbo Oppositivo Provocatorio, i Disturbi dell’Apprendimento e i Disturbi dello spettro Autistico. Data la sua diffusione è una delle sindromi infantili maggiormente studiata dai ricercatori dal ‘900 a oggi.

Quali sono le cause per cui un bambino sviluppa un ADHD? L’ADHD è un disturbo con un’eziologia complessa, ovvero dovuta al contributo aggiuntivo di più fattori, la cui azione combinata, di varianti polimorfiche e disfunzionali, va dal patrimonio genetico, fino agli ambienti e abitudini di vita. Gli studi iniziali consideravano determinanti i fattori di natura neurologica ed ereditaria, enfatizzando la responsabilità di alterazioni di natura neurobiologica o di relativi deficit. Oggi c’è cautela nell’attribuire ai soli fattori neurologici o genetici la causa del disturbo; essi rappresentano sicuramente un background predisponente che aumenta il rischio di sviluppo dei sintomi in quei bambini che sono a contatto con ambienti familiari e sociali in cui dominano stili relazionali che ne influenzano il manifestarsi. Sono state riscontrate significative associazioni tra la presenza dell’ADHD e un minore livello di attivazione psicofisiologica in risposta agli stimoli esterni. Una diminuzione dell’attività dei lobi frontali è correlata ad una diminuzione del controllo dell’impulsività e dell’attenzione; le funzioni regolate dai lobi frontali comprendono infatti la programmazione e la pianificazione del comportamento, le capacità di espressione dell’impulsività e quelle del mantenimento dell’attenzione (Denes, Pizzamiglio, 2000). Un’altra struttura probabilmente coinvolta nell’ADHD è il cervelletto, implicato nella pianificazione e nella regolazione del comportamento motorio e in quello delle funzioni esecutive, avvalorando l’ipotesi secondo cui l’ADHD è riconducibile ad un deficit di tali funzioni, modello ancora oggi accreditato. I bambini con ADHD, a causa delle compromissione funzionale delle attività dei lobi frontali, presentano deficit in alcune principali funzionalità esecutive, ascrivibili alle seguenti attività cognitive: memoria di lavoro; interiorizzazione del discorso autodiretto; autoregolazione dell’umore, della motivazione e dell’attenzione. Al contempo, secondo le più avanzate prospettive di ricerca della genetica molecolare, lo sviluppo dell’ADHD sembrerebbe essere correlato ad alterazioni dei geni coinvolti nella funzionalità dopaminergica (Faraone et al., 2001; 2005). Il gene DRD4 (cromosoma 11), in particolare, è indispensabile per una corretta attività dopaminergica. L’ambiente, non per ultimo, ha una chiara influenza nello sviluppo e sul decorso dei sintomi. Uno dei fattori psicosociali più studiati è come i genitori affrontano i bambini con ADHD e il ruolo della famiglia. Il bambino con ADHD presenta significativi problemi relazionali, legati all’impulsività-iperattività e già dalla prima infanzia ha minori capacità di cooperazione con l’adulto e con i coetanei; in particolare la relazione con la madre è disturbata dall’impulsività e dal comportamento negativistico e disorganizzato del bambino. Il comportamento della madre, che viene portato ad essere meno responsivo e più direttivo, fa sì che il rapporto sia caratterizzato da alti livelli di conflittualità e di emotività espressa, soprattutto in età prescolare. È stato evidenziato come un’elevata conflittualità familiare in età prescolare sia un elemento predittore sia delle difficoltà di adattamento scolastico, sia dello stress familiare in età adolescenziale (Barkley, Fischer et al., 1991). Esistono anche fattori relativi al maltrattamento derivato dallo sviluppo del bambino entro il contesto familiare; in particolare bambini che provengono da situazioni di forte svantaggio socioculturale sono più esposti al rischio di essere sottoposti a maltrattamento familiare che può essere ricondotto, secondo Di Blasio (2000), a quattro categorie: trascuratezza, maltrattamento fisico, abuso sessuale e abuso emozionale, dove per quest’ultimo si intendono “persistenti atteggiamenti di rifiuto, svalutazione, denigrazione da parte dei genitori che influiscono negativamente sullo sviluppo delle competenze cognitive ed emotive di base”.

Come intervenire? Destinatario dell’intervento non è solo il bambino, che oggi viene trattato con terapie che vanno dal piano farmacologico a quello cognitivo e comportamentale, ma anche, e soprattutto, i genitori, i quali necessitano di essere ascoltati, supportati e orientati nella gestione del rapporto con il proprio figlio. Essere padre, e ancora di più, essere madre di un bambino costantemente disattento e iperattivo può comportare alti livelli di stress, nonché sentimenti di frustrazione dal forte carico emotivo, quali senso di colpa e autopercezione di inadeguatezza nel ruolo genitoriale, dunque stati depressivi. Questi genitori presentano frequenti problemi nel controllo della rabbia, con difficoltà comunicative e tendenti alla punizione dei comportamenti negativi del figlio e scarsamente tendenti, invece, dei comportamenti positivi; in più, spesso, sono dominati dalla convinzione che la situazione sia priva di possibili soluzioni. Un simile clima familiare è evidente che abbia delle influenze sul mantenimento o incremento dei sintomi nel bambino, il quale necessita, al contrario, di un ambiente che lo indirizzi verso maggior capacità di autocontrollo e di riflessività. Per questo motivi sono stati proposti numerosi interventi di ordine psicoeducativo rivolti alle famiglie con figli ADHD. Tali interventi, mirano al miglioramento della relazione tra genitori e figli, all’aumento della capacità di analisi dei problemi educativi, allo sviluppo della conoscenza di metodi educativi efficaci e all’aumento della capacità di gestire i conflitti. In linea generale, è necessario costruire e mantenere un ambiente strutturato e sufficientemente prevedibile, caratterizzato dalla presenza di regole la cui infrazione porta a conseguenze altrettanto prevedibili. Un ambiente del genere rende lo stesso genitore, per il suo bambino, un modello da interiorizzare e a cui rifarsi nelle situazioni problematiche e non. È importante, oltretutto, fornire al genitore spazi di riflessione sul proprio vissuto individuale di genitore e di componente della coppia genitoriale. In definitiva, così come l’ambiente familiare è molto spesso la più potente fonte di disagio, è al tempo stesso la principale fonte di risorse per lo sviluppo di un soggetto in età evolutiva, dunque, è molto importante lavorare per e con i genitori, la cui collaborazione è imprescindibile.

Altre figure di riferimento fondamentali sono gli insegnanti, figure con cui il bambino trascorre quotidianamente molto tempo. Anche gli insegnanti, dunque, dovrebbero essere attrezzati di conoscenze e di possibili metodologie da adottare quando nelle loro classi sono presenti bambini con ADHD. È chiaro che la relazione con il bambino ADHD è una vera e propria sfida, in cui si è costretti a confrontarsi con comportamenti provocatori e disturbanti ma è importante tenere a mente che la sintomatologia manifestata non va considerata come un’espressione della svogliatezza o della maleducazione ma, piuttosto, come la conseguenza di un disturbo di origine complessa, del quale il bambino non può, ovviamente, essere ritenuto responsabile. Partire con tale premessa è il fondamento per la gestione della relazione educativa e per lo sviluppo di una vera e propria cultura del trattamento dell’ADHD.

Si tratta, dunque, di un problema medico o educativo? A questa domanda, che risuona quasi come un dilemma, rispondere che sia un problema più educativo che medico è al tempo stesso più responsabilizzante per l’adulto ma anche, per certi versi, più “rincuorante”. Si è verificato, ad esempio, che all’evoluzione della sintomatologia sia corrisposta la percezione dell’accettazione da parte dell’ambiente educativo, familiare e scolastico. In altre parole, l’intervento passa dai genitori e dagli adulti di riferimento.

Ciò che un bambino non riceve raramente può dare in seguito”.
P. D. James


Riferimenti Bibliografici

Fontani, S. (2011). Il disturbo da deficit di attenzione con iperattività. Strumenti per la diagnosi, l’intervento e l’integrazione scolastica. Pisa: Edizioni ETS.

Zanon, C. (2017). ADHD. L’iperattività e la disattenzione nei bambini. Un problema medico o educativo?. Cagliari: Arkadia Editore.

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