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PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE RIVOLGERSI AD UNO PSICOLOGO?

Foto dottoressa Giulia Miglietta

A cura della 
Dott.ssa Giulia Miglietta 

Psicologa - Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico socio-costruttivista 

Taviano (Lecce) 

 

PREGIUDIZI SOCIALI E RESISTENZE AL CAMBIAMENTO

Sebbene gli sviluppi del nostro tempo e sebbene la figura dello/a psicologo/a si è sempre più fatta spazio all’interno dei diversi contesti sociali,  rivolgersi ad uno psicologo ancora oggi crea imbarazzo e per molti è visto come  destabilizzante poiché porta ad interrogarsi su quelle che una volta erano certezze circa la propria persona ma che ad un certo punto sembrano vacillare.
Se difficilmente si hanno remore a spiegare che ci si deve recare dal medico, diverso è quando si tratta dello psicologo. Uno dei primi pensieri prodotti è “Cosa penseranno gli altri?". Diversi sono i pregiudizi che scoraggiano, fino a far evitare, una richiesta di aiuto a questo tipo di professionista. Proviamo così a vagliarli e a cercare di dialettizzarli. Innanzitutto è utile dare una definizione precisa di cosa sia più in generale un pregiudizio. In letteratura viene descritto come una valutazione negativa o positiva verso una categoria di oggetti/soggetti, basata non su dati di fatto o acquisita per esperienza diretta, ma su generalizzazioni, senza avere nessuna prova o supporto, se non il famoso “si dice che…”. Allport, uno dei più autorevoli studiosi della Psicologia Sociale, sostiene che alla base del pregiudizio vi siano due processi cognitivi: categorizzazione e generalizzazione. La categorizzazione è la creazione di categorie all’interno delle quali collocare le informazioni (es: se incontro una persona nata a Parigi la categorizzo come francese); la generalizzazione è l’estensione di un aspetto a tutti gli elementi di un gruppo (es: se un extracomunitario commette un reato allora tutti gli extracomunitari sono potenzialmente delinquenti). Questi sono processi che contribuiscono a rappresentarsi il mondo e i suoi oggetti sociali ma anche a muoversi ed orientarsi all’interno di esso, in quanto, tali contenuti cognitivi, si traducono in atteggiamenti e comportamenti con una certa connotazione. Ciò accade perché le persone hanno bisogno di rendere il mondo prevedibile e controllabile per poter adattare il proprio comportamento al mondo stesso e avere la sensazione di poter gestire gli eventi.

E allora quali sono i più diffusi pregiudizi verso la figura dello psicologo e verso chi a lui si rivolge?

Il primo pregiudizio è sicuramente la credenza che lo psicologo sia per i “pazzi”. Bene, sfatiamo questo mito: l’utenza che si rivolge allo psicologo è molto spesso rappresentata da persone che vivono problematiche esistenziali, ovvero disagi circoscritti alla vita sociale, o di relazione con un Altro significativo (familiare, partner, ecc), o che vivono un disagio emotivo, o ancora che trovano difficoltà nell’affrontare un evento stressante, quale ad esempio un importante cambiamento o una perdita, dunque un lutto, o un momento di crisi in qualsiasi ambito della propria vita. Molti sono anche i genitori che chiedono la consulenza dell’esperto per essere aiutati a comprendere e a gestire situazioni critiche riportate dai figli (ad esempio difficoltà nell’apprendimento scolastico), o il rapporto stesso con i propri figli, quindi la più generale dimensione della genitorialità. Un’altra tipologia di utenza sono coloro che riportano un disturbo, dove il sintomo psicopatologico può rientrare nei disturbi di ansia, dell’umore, di personalità e quant’altro (dalle dipendenze ai disturbi psichiatrici, ecc). All’interno di questa fetta i disturbi si collocano su un continuum ed è importante valutarne la criticità, in quanto molto spesso è necessario l’intervento di altre figure professionali o dei Servizi Sanitari Locali. Un’altra tipologia di utenza è invece data da colori i quali non riportano particolari sintomatologie ma desiderano fare un percorso personale di crescita di Sé e dunque utilizzare il lavoro psicoterapeutico in chiave analitica, ovvero di conoscenza del proprio mondo interno.

Un secondo pregiudizio, definibile più tecnicamente come fantasia paranoica, è che lo psicologo potrebbe manipolare la mente della persona che a lui si rivolge.  Si deve sapere che gli psicologi oltre che agire eticamente e secondo il buon senso - che dovrebbe accompagnare qualsiasi figura professionale ancor più se di ambito sanitario - sono soggetti ad un preciso Codice Deontologico che suggerisce ad ogni professionista di agire rispettando l’autonomia e le credenze dei suoi pazienti, astenendosi dall’imporre il proprio sistema di valori, non usando in modo inappropriato la sua influenza. Oltretutto, lo psicologo non è dotato di alcun potere eccezionale tale da essere in grado di “leggere nella mente delle persone” e non interpreta sogni aprioristicamente, ovvero senza una cornice di relazione clinica che permetta di dare significato e senso a quanto analizzato.

Donna bionda con ai lati un disegno di un angelo e di un diavolettoUn terzo pregiudizio, che limita e scoraggia la richiesta di aiuto, è la convinzione che nessuno può capire il dolore di un’altra persona se non la stessa che lo prova. Purtroppo questa posizione non fa che alimentare il malessere, contribuendo a radicare la sofferenza. È importante perciò spiegare che lo psicologo non lavora in ragione delle proprie esperienze vissute in prima persona (semmai l’esperienza è un fattore aspecifico che orienta qualsiasi soggetto!) ma il suo intervento si avvale di strumenti, conoscenze e metodologie, che gli permettono di affrontare situazioni diverse avvalendosi, oltre che degli studi condotti durante gli anni di formazione, anche di una formazione continua fatta di approfondimenti, aggiornamenti, esperienze professionali e di quella capacità di ascolto e di sintonizzazione emotiva imprescindibile per chi fa/è uno psicologo.

Un altro pregiudizio scoraggiante è che lo psicologo sia per chi è debole. A tal proposito sarebbe interessante approfondire anche cosa si intende per debole nell’immaginario collettivo, figlio di una cultura occidentale oggi particolarmente polarizzata su valori narcisistici discriminanti. Tuttavia, il desiderio di “farcela da soli” molto spesso si scontra con fallimentari tentativi dell’agire individuale. Affrontare le difficoltà autonomamente, sfruttando le proprie risorse personali (dette anche tecnicamente strategie di coping), è sicuramente sintomo di maturità e di un Io ben funzionante ma a volte non è sufficiente e rivolgersi ad un esperto è più un atto di forza che di debolezza, poiché riconoscersi dei limiti è un atto di presa di consapevolezza “coraggiosa”. Questo implica un farsi carico della difficoltà non spostarla all’esterno, dunque sull’ Altro, ma assumersi la responsabilità e l’eventuale merito di averla affrontata.

Diffusissima è anche l’idea che il cambiamento sia impossibile. “Io sono fatto così!”: quante volte abbiamo sentito questa affermazione o quante volte lo abbiamo affermato in prima persona?! La maggior parte delle persone pensa di essere nata e cresciuta con determinate caratteristiche e quindi di avere un determinato carattere, percepito come immutabile, trovando impraticabile anche solo contemplare la possibilità di altre alternative da sviluppare all’interno della propria soggettività. Ma non è esattamente così: ogni persona fa esperienza di una piccola parte, spesso rigidamente cristallizzata, del Sé potenziale e sta nella sua facoltà poter sviluppare altri “modi di essere al mondo”, dandosi la possibilità - parafrasando Kant - di indossare nuovi occhiali, con altre lenti di diverso colore, per guardare quello stesso mondo. E questo è possibile lavorando su sé stessi, con l’aiuto di un esperto. Sulla scia di questo, vi è un altro pregiudizio, espressione di uno scetticismo molto diffuso, ovvero la credenza che sia impossibile risolvere i problemi “solo” parlando. Parlare, raccontare e raccontarsi con qualcuno che ascolta in modo competente è un mezzo potentissimo di introduzione di un cambiamento, è il primo. Questo non solo perché semplicemente “parlarne fa bene”, in quanto attenziona degli elementi che vengono molto spesso agiti senza riflessione, ma anche e soprattutto perché il linguaggio, rifacendoci a Vygotskij, non è solo uno strumento per descrivere la realtà ma è il mezzo stesso attraverso cui si costruisce, il mezzo attraverso cui si dà significato agli oggetti del mondo (relazioni, eventi, ecc). Dare un nome alle cose è frutto di un processo di simbolizzazione dell’esperienza, di “sentirla” in un modo piuttosto che in un altro.

Altra misconcezione è quella che lo psicologo può essere sostituito da un buon amico con cui parlare. Questo è un punto centrale: la natura delle due relazioni e il senso del rapporto sono molto diversi, anzi, è necessario che tra lo psicologo e il paziente ci sia una condizione di estraneità, ovvero che non ci sia un rapporto pregresso, specie se affettivo, e l’amicizia lo è. La gestione della dinamica affettiva in questo senso garantisce obiettività e tutela da possibili altre implicazioni che rendono difficile l’efficacia dell’intervento professionale. Molto spesso accade che risulti più semplice ad una persona parlare con una figura esterna/estranea rappresentata in questo caso dallo psicologo, il quale oltretutto garantisce la tutela della privacy; dunque la garanzia di riservatezza, la sospensione del giudizio e gli strumenti di cui si avvale lo psicologo risultano fare una delle differenze fondamentali tra il professionista e l’amico fidato.

Un altro pregiudizio, che assume i connotati di vincolo “oggettivo”, è il timore che, specie quando si parla di psicoterapia più che di consulenza, duri e costi troppo. Sulla durata dipende principalmente dal caso: ci sono situazioni affrontabili in poche sedute, altre che necessitano di più tempo. Non è un parametro che si può definire a priori ma va concordato con il professionista, in quanto imprescindibile dalla problematica riportata, e di conseguenza dal tipo di intervento necessario, dall’approccio dello psicologo, dai tempi a disposizione e da variabili da valutare caso per caso. Sui costi ci sono diverse possibilità su come poterli gestire, dal servizio pubblico che agevola tantissimo, al privato che spesso propone diverse soluzioni e possibilità per andare incontro alla domanda; anche questo è un fattore da discutere direttamente con il professionista.

Tali pregiudizi è possibile tuttavia intenderli come funzionali al mantenimento dello status quo nella vita della persona e dunque, in chiave psicodinamica, leggerli come difense, nonché resistenze dell’Io, dell’equilibrio psichico del soggetto. Molto più semplice è navigare in acque conosciute, sebbene con i limiti e problematiche che scatenano tempeste, ma comunque note e gestibili nello stesso identico modo di sempre. Freud fu il primo a definire la difesa come una “operazione psichica, in parte inconscia, talvolta coatta, messa in atto per ridurre o sopprimere ogni turbativa che possa mettere in pericolo l’integrità dell’Io e il suo equilibrio interno”. Il concetto di resistenza trova le prime tracce nei suoi Studi sull'Isteria del 1895. La resistenza è stata scoperta in quanto “ostacolo all'emersione dei sintomi, alla presa di coscienza del paziente e quindi al proseguimento e buon esito della cura”; Freud la definì "il migliore ostacolo al lavoro terapeutico". In seguito, con la seconda topica l'accento è stato posto sul concetto di difesa: la resistenza assunse il significato di difesa, e come tale attribuita all'Io. Declinando contestualmente questi nucleari concetti della teoria psicoanalitica, comprendiamo come il pregiudizio, frutto di elaborazioni cognitive categorizzanti e generalizzanti ha una natura più profonda, ovvero una natura affettiva. Sono gli affetti che intervengono ad intellettualizzare (“cognitivizzare”) i bisogni più celati per renderli accettabili e tollerabili, perché molto probabilmente la loro esplorazione ed elaborazione espone a frustrazione, una tra le tante il confronto con il giudizio sociale, che mai come oggi assume un valore identitario di intensità tale da renderlo persecutorio.
Freud vide nella tenacia delle resistenze l'ostacolo alla terapia psicoanalitica, e lo scoglio, quasi inevitabile, contro cui la cura va ad arrestarsi.
Allora, non sono forse le nostre resistenze il primo ostacolo da superare!?

Ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini (Alda Merini).

Riferimenti Bibliografici

Allport, G. (1954). The nature of prejudice. Stati Uniti: Addison-Wesley.  
Freud, S. (1926). Inibizione, sintomo, angoscia. Torino: Bollati Boringhieri.
Freud, S. (1980). Vol. 1. Studi sull’isteria e altri scritti. Torino: Bollati Boringhieri.
Vygotskij, L.S. (1954). Pensiero e linguaggio. Firenze: Giunti-Barbera.

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