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LA VECCHIAIA NON È COSÌ MALE, SE CONSIDERATE LE ALTERNATIVE

 

Foto della Dott.ssa Gilda De Giorgi

A cura della 
Dott.ssa Gilda De Giorgi 

Psicoterapeuta e psicologa clinica, specializzata in salute 
relazioni familiari e interventi di comunità 

Maglie  

 

Così scriveva M. Chevalier sul New York Times.
“Siamo un Paese di vecchi!”, dicono oggi. Ma cosa vuol dire “vecchi”? È un richiamo alla saggezza o all’impotenza?

La vecchiaia si configura in ambito clinico, e non solo, come terzo stadio della vita, terzo a infanzia e età adulta, in ordine cronologico e non valoriale. Peraltro, da un punto di vista sociale-antropologico, trattasi di un fenomeno in aumento. Basti pensare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, prevede per il 2020 un aumento della popolazione mondiale del 95% rispetto al 1980, mentre la popolazione anziana crescerà probabilmente del 240%. Molti fattori hanno contribuito alla determinazione di tale fenomeno. Primo fra tutti il benessere economico, inteso come investimento su ricerca, sicurezza e servizi sanitari, oltre che arricchimento della società. Inoltre, lo sviluppo del sistema fognario e della rete idrica, di abitazioni confortevoli, trasversali a un lungo periodo di pace (a partire dal 1945), sono stati garanti di un progressivo sviluppo della società sotto plurimi punti di vista.

Donna anziana che passeggia con un bastone mentre sul muro, alla sua destra, la sua ombra giovane ballaSotto questo profilo l’aumento della popolazione anziana non dovrebbe essere vissuto come un problema, ma come il risultato di aspetti positivi e auspicabili, tali per cui l’aumento dell’età media diviene una conquista dell’umanità. Eppure, spesso tale tema viene trattato in maniera negativa e diviene fonte di crescenti preoccupazioni e premure nell’affrontarlo. Una tale vision del fenomeno viene corroborata non solo, o non tanto da questioni di carattere pratico burocratiche, come la sproporzione tra popolazione attiva (produttori di reddito) e quella passiva (non produttori di reddito) che nel lungo termine può provocare un’emergenza della provvidenza sociale. La questione è antecedente e fautrice di tale vision e si situa nella definizione in termini semantici della vecchiaia e nella difficoltà emotiva nel dare definizione e significato a tale termine. Eppure i “vecchi” sono i “nostri vecchi”, e forse la difficoltà sorge a seguito di tale associazione, tale per cui parlare di loro vuol dire parlare anche di noi, sia rispetto la prefigurazione di quello che sarà il nostro futuro, sia per ciò che del passato portiamo in valigia o lasciamo nel cassetto. Attorno a tale legame tra la vecchiaia e noi entrano in gioco dinamiche legate a: affiliazione; appartenenza; progettualità, tutte racchiuse all’interno della definizione dell’identità. Assunzione dalla quale deriva una difficoltà di definizione e, a cascata, una difficoltà di approccio al tema come alla persona anziana. A complessificare il tutto il tema del fine vita di cui la vecchiaia è richiamo. In ambito terapeutico, ad esempio, tale tema implica il terapeuta in un'analisi del significato esistenziale che per lui personalmente riveste la morte, non solo in termini fisici, ma soprattutto psicologici. Come può allora un operatore dell’ambito socio sanitario o anche una parente prossimo prendere in carico una persona anziana, qualora condizioni di varia natura lo richiedessero, senza fare i conti con tutto ciò che alla persona è legato?

Assumendo che l’associazione vecchiaia-malattia possa risultare ad oggi anacronistica e in tal senso, sempre l’OMS, a proposito di quella mentale, ci invita a riflettere:

“La prevalenza di parecchi problemi di salute mentale aumenta con l’età. ... Ciò nonostante le indagini rivelano che gli anziani sono per la maggior parte mentalmente sani. Molti disturbi mentali possono iniziare a qualunque età; la maggior parte dei disturbi che colpiscono gli anziani non è dovuta all’invecchiamento, e si sono osservati decorsi e reazioni a trattamenti identici a quelli di soggetti più giovani. Nonostante ciò, è assai diffusa l’opinione che la malattia mentale negli anziani sia inevitabilmente progressiva e che la terapia possa essere soltanto sintomatica. È molto importante sradicare tale preconcetto, che spesso conduce ad un nichilismo terapeutico”

Mezzo busto di donna vestita in stile anni 1920In seguito a tali premesse e assunzioni non è un caso che da non molto sia stata costituita una nuova branca della psicologia, ossia la Psicogerontologia, che in primis faccia entrare tale stadio di sviluppo all’interno dell’elaborazione culturale moderna, lavorando su luoghi comuni che appartengono anche a “addetti ai lavori”. Essa consiste nello studio psicologico di come il processo di invecchiamento influenza la nostra vita mentale, fisica e persino sociale durante la fase della tarda età adulta. Attraverso la Psicogerontologia si svolge un ruolo fondamentale nella salute della popolazione anziana, aiutandola ad affrontare e comprendere malattie che la riguardano emotivamente e psicologicamente. La sua nascita è il prodotto di una scarsa conoscenza su cosa sia la vecchiaia, su cosa la caratterizzi e su cosa fare per viverla al meglio ed è una peculiarità del nostro periodo storico. Far cambiare il posizionamento assunto rispetto a tale tema è oggi riconosciuto come compito principale di tale scienza, risultante di un lavoro già intrapreso in “tempi non sospetti”. Solo dopo tale acquisizione si può parlare di valorizzazione, presa in carico e “badanti”. Ad esempio, già nel 1991 E. Halpert, psichiatra statunitense, in un suo articolo su “The Psychoanalytic Quarterly” trattava le fantasie che ruotano attorno al ricovero in casa di riposo del proprio genitore anziano, spesso vissuto come abbandono e sua uccisione, che la minaccia narcisistica legata al riconoscimento della propria fine nel deterioramento psicofisico di uno o entrambi i genitori. E ancora, vi è una sensazione comune e trasversale alla vita, che lega persona anziana e il familiare che ne cura la presa in carico, ossia la difficoltà nel trovare un equilibrio funambolico tra due condizioni esistenziali diverse, quasi opposte. Se per la persona anziana la fune divide due tempi, uno presente, in cui esistono fisicamente ma più limitatamente, e uno passato dove risiedono ricordi e capacità assopite, per il familiare si tratta di esperire la presa in carico o come “guarire”, fedele ad un ideale narcisistico, o come “curare”, attraverso uno sforzo di investimento oggettuale che genera legame. Attraverso una accoglienza della complessità del fenomeno, come in parte accennato, la Psicogerontologia e tutti gli Enti e Associazioni lavorano sinergicamente verso la condivisione con la persona anziana e i suoi familiari del nuovo stadio di sviluppo. La politica di intervento crea i presupposti per uno spazio mentale all’interno del quale elaborare un piano semantico di rilettura anche dei luoghi comuni, partenza per cogliere la domanda portata dall’utenza e dalla società, un piano burocratico economico, che prevede la costituzione di reti solidali e strutture adeguatamente attrezzate, un piano clinico di presa in carico e intervento.


E. Halpert, “Aspects of a Dilemma of Middle Age: Whether or Not to Place Aged, Failing Parents in a Nursing Home”, in “The Psychoanalytic Quarterly”, Vol. 60, 1991, No. 3, pages 426-449

M. Cesa-Bianchi, T. Vecchi, “Elementi di psicogerontologia”, Milano, FrancoAngeli, 2005


http://www.psychomedia.it/pm/lifecycle/elderly/lavanzi.htm

http://www.who.int/

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