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L'HOMO FABER È TALE IN QUANTO HOMO LUDENS!

 

Foto della Dott.ssa Gilda De Giorgi

A cura della 
Dott.ssa Gilda De Giorgi 

Psicoterapeuta e psicologa clinica, specializzata in salute 
relazioni familiari e interventi di comunità 

Maglie  

 

Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica.

Così recita l’Articolo 31 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rigths of the Child), approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989.

Un bambino che gioca a campana per stradaIl gioco rappresenta a livello simbolico per il bambino, soprattutto molto piccolo, la lente o cornice di senso attraverso cui esplora il mondo che lo circonda e le persone che incontra, a partire dai caregiver fino ai pari. Come ci ricorda l'epistemologo G. Bateson, quando si parla di gioco, comunemente, si dice ciò che non è: non è serio, non è reale. Si dà una definizione tramite un negativo. E infatti, se lo stereotipo largamente diffuso ci descrive il gioco come attività separata da una seria e costruttiva, più tipico dei momenti di ozio, numerosi psicologi, a partire da Winnicot, Piaget e Vigotski hanno restituito a tale attività il valore dell’apprendimento e della crescita nell’infanzia, e non solo. In realtà al Romanticismo risale il primo contributo, predittivo di quelli che sarebbero stati gli studi psicologici successivi, da parte del pedagogista tedesco Frobel, fondatore del Kindergarten, che coincide con l’attuale scuola dell’infanzia, e della pedagogia dell’infanzia come disciplina.

Ciò che oggi chiamiamo 'gioco' ha acquisito nella riflessione psicopedagogica uno spazio sempre più vasto e sempre più appassionante, rilevante. È difficile ad oggi riuscire a restituire del gioco una definizione univoca. Per tale ragione proveremo a ricostruirne il significato e il suo valore attraverso diverse teorie psicologiche. A partire da Vigostki, psicologo sovietico e padre della scuola storico culturale, la visione del gioco viene ampliata e arricchita, rispetto la visione precedente da aspetti affettivi, motivazionali e interpersonali, che si aggiungono a quelli meramente cognitivi. Secondo quest’ultimo il gioco rappresenta l’intermediario più adatto tra il desiderio e la sua realizzazione. Attraverso l’attività di immaginazione e la spinta creativa, il bambino riesce a soddisfare i propri desideri, tollerando la frustrazione della distanza che intercorre tra se e l’oggetto desiderato. Tale spazio è riempito, colmato e soddisfatto dall’attività ludica gestita e creata su misura dal bambino. In altre parole il gioco è la realizzazione illusoria e immaginaria, quanto appagante del soddisfacimento dei propri bisogni. In tal senso la scienza del bambino come attività autonoma tende ad aumentare con l’età, svincolandosi sempre più dalla realtà esterna e dai suoi stimoli che ne limitano la libertà di espressione. Con la crescita il bambino inizia a maneggiare la realtà a livello concreto e con maggior padronanza, utilizzando uno stimolo in maniera non convenzionale. Prendono via via più importanza le idee rispetto al contesto fisico, citando Vigostki, è in questo passaggio che “un pezzo di legno inizia ad essere una bambola e un bastone diviene un cavallo”. Il gioco diviene così fonte di sviluppo dell’immaginazione, del pensiero astratto e del linguaggio simbolico dell’individuo.
È a questo punto che l’immagine che Vigostki ci regala del gioco viene arricchita dagli studi di Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese che definisce tale attività come uno spazio e un tempo del bambino, all’interno del quale è possibile costruire il proprio Sé, attraverso la dinamica dipendenza autonomia. In questa dimensione, definita area transizionale, il bambino riproduce attraverso differenti oggetti “transizionali”, il seno materno, ossia l’oggetto di accudimento primario e di bisogno primario. Riproducendoli attraverso un oggetto parimenti stimolante, come la “coperta di Linus” del fumetto di Shultz, il bambino inizia a costruire la sua autonomia dalla figura materna, o dal caregiver principale. Man mano che l’oggetto transizionale sarà interiorizzato e immagazzinato a livello inconscio nel suo essere e nel vissuto legato ad esso, il bambino se ne distaccherà sempre di più. In tali termini l’area transizionale costruita ricorsivamente attraverso il gioco, che funge da ponte tra mondo interno e mondo esterno, permette al bimbo di affrontare i sentimenti di ansia e alcune situazioni particolari, come, per esempio, il momento della nanna.

Andando oltre, Piaget, padre dell’epistemologia genetica, psicologo, biologo, pedagogista e filosofo, ha dedicato molti anni allo studio delloFoto in bianco e nero in cui dei bambini svolgono giochi di intelligenza sviluppo mentale del bambino, elaborandone una teoria del modello stadiale di sviluppo cognitivo, oggi ampliamente criticata e ampliata. Senza entrare nel merito di tale teoria e dei suoi sviluppi successivi, in tale sede si ritiene utile l’associazione creata da Piaget tra le fasi di sviluppo e le diverse tipologie di gioco ad esse associate. Per Piaget l’attività ludica implica una rappresentazione mentale e una serie di funzionamenti a livello cognitivo, ponendosi nella teoria dello sviluppo dell’intelligenza e più precisamente nel processo di formazione del simbolo, che prevede il passaggio, durante la crescita, dal gioco di esercizio, al gioco simbolico, a quello di regole. Citando Baumgartner: “Il gioco, secondo Piaget, svolge nello sviluppo due funzioni: in primo luogo, serve a consolidare capacità già acquisite attraverso la ripetizione e l'esercizio; in secondo luogo, rafforza nel bambino il sentimento di poter agire efficacemente sulla realtà perché nel mondo della fantasia non si verificano insuccessi né si è vincolati alle proprietà degli oggetti o delle situazioni reali”.

Gli studi citati dimostrano come il gioco sia stato e sia tutt’ora tema di elezione nella ricerca psicopedagogica. A rinforzo di tale interesse si situano i numerosi elementi psicologici di cui il gioco si caratterizza, che, per tale ragione diviene oggetto di osservazione da parte del clinico, oltre che tecnica terapeutica con i minori, come la Play Therapy. Tra questi ricordiamo:

  1. la motivazione intrinseca, tratto distintivo del gioco. Si gioca perché c'è piacere a farlo, è l'unica giustificazione a questa attività, non ci sono pressioni esterne o attese;
  2. la priorità dei mezzi sul fine tale per cui è molto più importante il procedimento rispetto al risultato. Infatti, spesso se osserviamo l'attività ludica si può notare che il piacere nel gioco consiste più nella fase preparatoria che non nell'esecuzione. Si riducono al minimo le frustrazioni e il rischio di insuccesso;
  3. la dominanza dell'individuo rispetto alla realtà esterna, che scinde il gioco dall’esplorazione;
  4. la non letteralità del gioco, ovvero la possibilità che offre l'attività ludica di poter esplorare nuovi significati usando gli oggetti come fossero qualcos'altro;
  5. la libertà dai vincoli, che permetto una co-costruzione interna delle regole tra il gruppo o tra il singolo giocatore e l’attività stessa;
  6. il coinvolgimento attivo dei bambini, non veicolato o manipolato, al massimo strutturato.

Da tutte le caratteristiche, le idee, i contributi è facile desumere che il gioco è essenziale per lo sviluppo, perché contribuisce al benessere cognitivo, fisico, sociale ed emotivo dei bambini, agendo su: la relazionalità partendo dall’oggetto transizionale; l’autonomia e il senso di efficacia sperimentandosi potenti nel fare, disfare e ricostruire e contemporaneamente appagandosi; il pensiero simbolico nel fingere e riuscire a stare nella finzione di un mondo che esiste come stimolo nella realtà esterna e come contesto nella realtà interna; garantirsi determinate connessioni sinaptiche che altrimenti andrebbero decadendo.

Riprendendo il titolo di tale articolo e quindi riprendendo lo storico J. Huizinga:
“il gioco è funzione creatrice di cultura”.

Il gioco caratterizza l’uomo in quanto animale culturale, poiché permea e modella ogni prodotto e artefatto culturale (dall’arte, alla religione, allo sport… etc.). Da qui il gioco viene a caratterizzarsi non solo come attività puramente biologica e fisica, ma come funzione portatrice di un senso, ragion per cui l’homo faber è tale in quanto homo ludens.

Baumgartner E., Il gioco dei bambini, Carocci, Roma, 2010, p. 18.
J. Huizinga, trad. it. C. Van Schendel, Homo Ludens, Einaudi, 2002
Rosa Cera, Pedagogia del gioco e dell'apprendimento, Franco Angeli.
Vygotskij L.S., 1966; trad. it. Da Cambi F. e Staccioli G., Il gioco in occidente, Armando Editore, Roma, 2007, p. 194.

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