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LA MALATTIA DI ALZHEIMER: PREVENIRE SI PUÒ, GUARIRE NON ANCORA

LETTERA APERTA DEL DOTT. SALVATORE SISINNI
Specialista in Malattie Nervose e Mentali
Primario ospedaliero di Psichiatria

Insieme col “male di vivere” (la depressione) quello della perdita della memoria (la malattia di Alzheimer) è il problema del quale attualmente ci si preoccupa di più, per rimanere nel campo delle malattie neurodegenerative dei soggetti anziani.

Ed oggi, si sa, grazie al miglioramento delle condizioni di vita (migliore alimentazione, decrescita delle malattie infettive), la vita media si è notevolmente allungata e, nel nostro, più degli altri Paesi europei.

La malattia di Alzheimer è la più comune forma di demenza. È caratterizzata fondamentalmente da un declino, di solito lento ma progressivo, delle capacità di ricordare, di pensare e di esprimersi. Di solito si manifesta negli anziani, ma si sta notando che l’età in cui compare sta diminuendo.

Fu descritta nel 1907 dal neurologo tedesco Alois Alzheimer, che evidenziò l’alterazione microscopica del cervello che la caratterizza. Tale alterazione colpisce i neuroni della corteccia cerebrale.

La malattia di Alzheimer non è considerata ereditaria; però si pensa che in alcune famiglie vi possa essere una predisposizione genetica. Non è causata dal normale invecchiamento. Lo dimostra il fatto che la maggior parte dei soggetti anziani conserva le capacità mnemoniche e intellettive.

I dati statistici sulla diffusione della malattia sono davvero allarmanti, e lo sono ancor di più se si pensa che è in continua crescita. Questo fatto è certamente in rapporto con l’allungamento della vita media delle persone.

immagine in cui vengono affiancati due cervelli, uno sano e l'altro con l'alzheimer. Il secondo appare più atrofizzato e con delle placche amiloidi

Si manifesta in diverse maniere, a seconda dei pazienti che, poi, differiscono uno dall’altro, non solo dal punto di vista della sintomatologia, ma anche di quello del decorso clinico: non peggiorano tutti i malati con la stessa rapidità. Si passa dalla forma lieve a quella moderata e poi alla forma grave. Quest’ultima comporta una invalidità totale e un’assistenza-sorveglianza continua nelle 24 ore. In questa fase il paziente non riconosce oggetti di uso comune, ha difficoltà a capire e quindi ad esprimersi; presenta disturbi del sonno e può diventare aggressivo, specialmente se si sente minacciato e rinchiuso. Può arrivare ad avere difficoltà a comunicare e, col tempo, ad avere bisogno della tanto temuta sedia a rotelle.

Le figure professionali della cui attività i pazienti si devono avvalere sono varie: il neurologo e lo psichiatra, che hanno il compito di formulare la diagnosi e di prescrivere la terapia; l’infermiere che esegua le cure prescritte; il fisiatra che provvede a prescrivergli esercizi che l’aiutino dal punto di vista psicomotorio; il terapista della riabilitazione che li esegue; e soprattutto di tanta pazienza e amore da parte dei familiari.

Quando questi, per vari motivi (socio-familiari, personali, geografici) non possono prendersi carico del paziente, rimane la casa di riposo, quale - come si suol dire - ultima spiaggia.

Che le case di riposo siano tristi e deprimenti l’ho sempre pensato e più volte toccato con mano, essendo stato chiamato, per mestiere, al capezzale di ammalati che vi soggiornano. E lo sono, nonostante si presentino - ahinoi! non tutte, tinteggiate con colori suggeriti da psicologi e arredate come gli alberghi a 5 stelle. Restano, tuttavia, fredde, distanti, senza significato, prive di ricordi.

Alcune hanno titoli, all’ingresso, a grandi lettere, tutt’altro che lugubri; ad es. “la casa delle querce; altre garbatamente ironici, come “la casa dei saggi”. Quest’ultima scritta può far riferimento al detto storico, secondo il quale, in ognuno di noi, cioè di quelle persone cosiddette normali, si può annidare un pizzico di follia. E per dire la stessa cosa col folle Nietzsche (cito a memoria) “ovunque esista follia, esiste anche un granello di genio e di saggezza”. Questo pensiero del filosofo tedesco lo riporta lo psichiatra Eugenio Borgna nel suo libro “Come se finisse il mondo”.

Nel mio paese, da alcuni anni un gruppo di volontari, periodicamente, soprattutto durante la stagione estiva e anche in occasione di feste importanti, etichettano con nome abbastanza significativo di menestrelli - si rifanno all’idea francescana in questo progetto indicato con la sigla O.F.S. (Ordine Francescano Secolare) - si recano in case di riposo per vecchi e disabili.

Questo gruppo, composto da cantanti, musicisti dilettanti, lettori di poesie o racconti (i cunti di una volta), presi da libri di autori locali ben conosciuti, anche se non tutti ancora in vita. E mi risulta che riescano molto bene nel loro intento: i vecchietti e le vecchiette, infatti, si interessano, partecipano, ricordano, tornano a sorridere alla vita. Cose queste, a costo zero.

E, allora, perché non vengono diffuse e moltiplicate queste iniziative? La conduttrice della rubrica delle lettere di un quotidiano di Puglia a questa domanda ha dato la seguente risposta: “La verità è che non amiamo i vecchi, non li ama una società che paradossalmente è fatta di vecchi, ma che li usa solo per fare business”.

Sono d’accordo con la giornalista. È proprio così e, con molta amarezza, bisogna riconoscerlo.

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